Adolescenti a confronto con un amico: Gianluca Firetti
La parola è strumento.
Gian lo sapeva bene.
Gian era un giovane ragazzo, perito agrario, che a 18 anni si è ammalato: un osteosarcoma.
Bisogna dirlo subito chiaramente: osteosarcoma, tumore alle ossa, maligno.
Gian ce lo avrebbe molto probabilmente spiegato così, cosciente delle parole scelte, senza paura di usarle.
“È questo che ho, anche se è tosto.”
E aveva ragione; alcune cose stanno in un certo modo, anche se “è tosto”, anche se qualcuno si commuove solo a sentirle raccontare.
Forse è proprio conseguenza della grande consapevolezza della forza della parola, la decisione di Gianluca, presa poche settimane prima della sua morte, di farsi aiutare nello “stilare” un alfabeto, il suo, che potesse raccontare la sua storia.
Gian, prima di morire, ha scritto un libro, insieme a don Marco; non tanto perché tutti sapessero di lui, ma perché potessero vivere “nella malattia con speranza e nella salute senza superficialità.”
Questo libro, Spaccato in due, parla appunto di un giovane malato, che però, al contrario di ogni aspettativa, non ha perso la speranza ed ha saputo anzi donarla.
Gian ha saputo, nel periodo fisicamente peggiore della sua esistenza, coltivare un’anima pura ed aperta ad accogliere gli altri, con l’aiuto del Signore, per non dar modo a nessuno di lasciare casa sua con lo stesso cuore di prima.
Gianluca, consapevole della sua imminente morte, ha avuto quasi il coraggio esserne felice. Ha scelto –come dice don Marco – di abbracciare la sua Croce tanto da innamorarsene e non volerla più lasciare, nemmeno quando si era fatta per lui troppo pesante. Piuttosto chiedeva a Gesù di “smezzargli la Croce”, ma mai di allontanarla da lui.
Un’altra prova tangibile della sua piena consapevolezza e “disposizione” nei confronti della morte erano quindi anche le sue preghiere, la più importante delle quali era l’Ave Maria, che Gian aveva fatto sua, modificandola.
“Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori adesso e adesso.”
Solo chi ha coraggio, come un uomo, può permettersi di dire determinate cose, ma, allo stesso tempo, solo chi si fida ciecamente di suo Padre, come un bambino, può evitare di avere paura e affidarsi completamente.
Gian era un uomo perché era forte, era un bambino perché si affidava, ed era un credente perché credeva.
Questo sembra scontato, ma non lo è assolutamente. C’è una grande differenza – ci spiega don Marco – tra un semplice praticante ed un vero credente.
Gian era un credente ed è stato in grado di insegnare agli altri come esserlo, persino a don Marco, prete da 20 anni, che ammette di aver visto davvero bene Dio solo attraverso le sue parole e i suoi bellissimi occhi.
“Ho imparato ad essere prete con Gian, mi ha insegnato cose che nei miei libri di teologia non ho mai trovato scritte.”
Gianluca era credente perché sapeva mettere in pratica la Parola di Dio, fare della sua vita “stralci di Vangelo” e aveva il coraggio di essere simile a Cristo nelle sue parole, nei suoi atteggiamenti, nel mostrarsi umile, fragile e infinitamente mortale, senza mai allontanare il calice del suo sacrificio.
Gianluca, morendo, ha imparato ed ha insegnato a vivere.
Pochi giorni prima di morire, con quella stessa bocca che oramai non poteva più spalancarsi per la malattia, Gian ha esclamato: “Sono contentissimo!”
Eppure lui sapeva che le parole contano.
Quindi forse quelle parole sono strumento potente, forse vogliono dirci qualcosa.
Giorgia